l'opinione
Separazione delle carriere e strategia del carciofo
Manca solo l’ultimo passo: con il voto del 18 settembre, la Camera dei deputati ha approvato in seconda lettura il testo del disegno di legge costituzionale per la riforma dell’ordinamento giurisdizionale che introduce la separazione delle carriere tra i magistrati giudicanti e quelli requirenti

Manca solo l’ultimo passo: con il voto del 18 settembre, la Camera dei deputati ha approvato in seconda lettura il testo del disegno di legge costituzionale per la riforma dell’ordinamento giurisdizionale che introduce la separazione delle carriere tra i magistrati giudicanti e quelli requirenti, prevede lo sdoppiamento del Csm in due Corti separate e affida il giudizio disciplinare su tutti i magistrati, competenza attualmente esercitata dalla apposita sezione del Csm, a un’Alta Corte disciplinare, separata dal Csm. Il testo deve ancora passare in seconda ed ultima lettura al Senato, e potrebbe essere poi sottoposto a referendum confermativo.
È bene chiarire subito che la modifica in gestazione non avrà nessuno, nessunissimo impatto con quello che è il problema principale della giustizia penale, vale a dire la sua eccessiva lentezza. La riforma non incide sui tempi lumacheschi del processo, perché non attiene alle modalità del suo funzionamento, che resta invariato, ma allo status giuridico dei protagonisti pubblici che lo animano: il giudice e il pm. Di ciò hanno ormai preso atto pubblicamente anche i sostenitori della novella, che, dopo aver sbandierato per decenni la volontà di separare le carriere per motivi di efficienza, ripiegano adesso sul più circoscritto obiettivo di smantellare le incrostazioni correntizie: la riforma come rimedio alla degenerazione delle correnti, dunque. Ancora una volta, non è vero. O meglio, non è del tutto vero, perché la riforma introduce in effetti un macchinoso congegno in base al quale i componenti di ciascuno dei Consigli superiori (come pure dell’Alta Corte) saranno estratti a sorteggio, per un terzo da un elenco di professori e avvocati compilato dal Parlamento e, per i restanti due terzi, rispettivamente, tra i giudicanti e i requirenti.
Questo comporterà, inevitabilmente, uno stravolgimento delle modalità di selezione dei componenti degli Organi di autogoverno, affidato non più alla volontà elettorale dei magistrati, ma al gioco dei bussolotti. Il tempo dirà se ciò avrà effetto sulla parte detestabile dei criteri correntizi, che selezionano i consiglieri superiori tra gli aderenti alle correnti stesse, e sui conseguenti meccanismi decisionali del Consiglio, troppo spesso inquinati dall’appartenenza anziché ispirati al merito. Ma ciò discenderà dalla introduzione del sorteggio e non dalla separazione delle carriere, che - di nuovo - non ha nulla a che vedere con il contrasto alle logiche di schieramento. Perché dunque separare ciò che oggi è già disgiunto?
E disgiunto sia funzionalmente, visto che - per legge - nello stesso processo nessuno può esercitare le funzioni di p.m. e di giudice; sia strutturalmente, visto che i tramutamenti di ruolo - ammessi, sempre per legge, solo una volta in tutta la carriera - tra giudici e pm sono oggi pari a circa l’1% dell’insieme dei magistrati: negli ultimi cinque anni è dello 0,83% la percentuale di pm che sono passati a funzioni giudicanti e dello 0,21% la percentuale dei giudici che sono passati a funzioni requirenti. La risposta è sin troppo facile e circola sottotraccia (ma nemmeno tanto) nelle dichiarazioni di diversi esponenti politici: perché l’obiettivo è quello di trovare un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato, posto che il potere esecutivo e quello legislativo ritengono che il giudiziario abbia preso il sopravvento. Di qui l’idea che, separando giudici e pm, il potere giudiziario torni ad essere in certa misura “governabile”, e discenda dal mondo della necessità, del dovere, proprio della giustizia, a quello dell’opportunità, del discrezionale, proprio della politica. Senonché, ad una analisi spassionata, anche questo obiettivo appare difficilmente raggiungibile, almeno nei termini sino ad oggi ufficialmente prospettati.
E vediamo la ragione. Il nostro processo è regolato dal principio della obbligatorietà dell’azione penale, perché la valutazione del Costituente fu quella di impedire che la decisione di perseguire i colpevoli potesse essere rimessa a scelte arbitrarie e insindacabili. Per consentirgli di operare e di ricercare le prove dei reati, al pm venne conferita la direzione funzionale della polizia giudiziaria. Ma l’obbligatorietà, il cui peso ricade sul pm, rende necessariamente il giudice corresponsabile dell’esercizio dell’azione penale. È questo il punto fondamentale: il pm valuta se presentare o no la richiesta di punizione, ma sarà poi il giudice a decidere sulla sua richiesta, e potrà seguire la decisione del p.m. o discostarsene, archiviando ciò che il pm ha chiesto di giudicare o mandando a giudizio ciò che invece il pm voleva chiudere. Il giudice è così necessariamente partecipe dell’esercizio dell’azione, potendo imporre al pm di esercitarla, rigettando la richiesta di archiviazione, o addirittura indirizzarlo nella formulazione delle accuse, con la cd imputazione coatta. Per conseguenza, giudice e pm sono inscindibilmente legati nel momento fondamentale del processo: la decisione di iniziare o chiudere il processo, e la scelta finale è rimessa al giudice e al suo prudente controllo. La semplice, meccanica amputazione dei pm dal corpo giudicante rischia così di creare un pm che conserva struttura e status del giudice, ma separato, e quindi più forte. Un pm autonomo e indipendente da una gerarchia, che conservi l’obbligatorietà dell’azione penale e la disponibilità della polizia giudiziaria, con un Consiglio superiore suo proprio, non acquisisce un potere in più, ma mantiene gli stessi poteri con una forza moltiplicata.
Per questo non si comprende la posizione assunta in materia da una parte dell’Avvocatura, che a suo discapito cavalca e incita la riforma, né sembra possibile che le future modifiche possano limitarsi alla scissione. La prospettiva (il timore?) è che si voglia pian pianino erodere il sistema giudiziario, quale era stato prefigurato dal Costituente, così come si fa col carciofo, mangiandone una foglia alla volta. A poco serve separare il pm dal giudice, se non si elide il rapporto inscindibile tra i due attori giudiziari. E, dunque, via l’obbligatorietà dell’azione penale, via la dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’Inquirente, via il controllo del giudice sull’operato del pm. Pure, poiché un controllo sul pm è necessario, e su questo siamo tutti d’accordo, giudici, pm e avvocati, chi, se non il giudice, sorveglierà il pm?
* Procuratore della Repubblica di Ragusa